Konichiwa
Il tanfo di ammoniaca del pavimento appena lavato mi ricordava l’odore di piscio di certi vicoli d’estate, la puzza di sigarette gli anni ’90, quando in quei posti ci si poteva ancora fumare.
Questo bar è rimasto uguale. Uno specchio della Peroni, di quelli da boom economico, sorge e si impone alle spalle del barista, confondendo la prospettiva e la profondità quel tanto che basta a scongiurarmi un attacco d’ansia:
di solito questi buchi, affollati di vecchi che fumano e giocano a tressette, distogliendo l’attenzione unicamente per palpare il culo alle cameriere moldave, hanno questo spiacevole effetto collaterale su di me…sarà l’assenza di spazio, l’assenza di ossigeno, l’assenza di speranza.
Vengo qui perché in fondo torturarmi mi piace, di domenica: coltivare la propria angoscia come una delicata orchidea, innaffiarla di pessima birra, accudirla al sole dell’assenza di prospettive.
Senza velleità artistiche, dio o chi per lui ce ne scampi. Puro masochismo, pestato a morte dalla noia, incapace di reagire. Tutto si modella al vuoto della propria anima. Ho chiamato Rigurgito e gli ho chiesto di vederci qui. Nella gola muchi acri e catramosi. Nello stomaco puro fuoco. Cherosene. Un callo purulento sul polso. Lei se n’è andata, o meglio, alla fine, ha trovato il coraggio di ammettere che, per quel che le riguardava, era tutto finito.
Guardo il barista, mi stappa una Peroni senza nemmeno chiedere. Significa che vengo qui troppo spesso. Primo sorso e conseguenti brividi lungo la schiena. Mi guardo intorno. Incrocio lo sguardo con la moldava, mi sorride. E’ nuova. Chissà l’altra dov’è finita. Sollevo il bicchiere per brindare alla sua salute, con una smorfia che potrebbe rappresentare alla buona un sorriso. Non le piace. Distoglie lo sguardo. Abbasso gli occhi e sghignazzo.
Lei mi ha lasciato perché aveva bisogno di spazio. Spero ne trovi a sufficienza.
Qui dentro non ce n’è.
Guardo fuori dalla finestra, il buio del deserto domenicale.
Un solo lampione, tre metri d’asfalto e subito dopo aperta campagna che si perde nell’oscurità.
Tanto spazio, peccato non si veda cosa ci sia dentro.
Un po’ come dentro di me, penso.
E penso anche che, se avessi quindici anni, questa cazzata me la scriverei sul diario, o sul mio blog di splinder e, probabilmente, mi farebbe vedere più fica fessa di un bidet.
Un colpo di tosse che vorrebbe essere una risata.
Stronzate.
Le cose non andavano più bene da un po’. Da quando la prima volta si era allontanata da me. Avrei dovuto essere io a lasciarla, allora, invece di rincorrerla supplicante. Col senno di poi siamo tutti bravi a roderci il fegato. La verità è che ci ho provato e che ho fallito.
Il bicchiere è vuoto. Lo riempio di nuovo. Ho smesso di bere a canna quando non sono per strada, mi piace l’idea comoda del bicchiere. Il mal di testa sta tutto nella schiuma, mi raccontava un belga qualche tempo fa e forse inconsciamente la cosa ancora mi condiziona.
Purtroppo ho fallito, nonostante ci abbia provato con l’anima, fino alla fine. Ma se qualcosa non deve andare non va. C’è ben poco da fare.
Tanti anni fa lei mi aveva regalato un braccialetto di cuoio, comprato in qualche ridicola località di mare. Uno di quei braccialetti da bancarelle, nulla di importante, giusto un pensiero. Lei ci teneva tanto, però, perché sul cuoio ci aveva fatto incidere un gioco di parole stupido, cretino, che avevamo ideato a letto in una di quelle splendide giornate in cui potresti vivere unicamente del calore di chi ti sta a fianco, quelle giornate in cui si fa l’amore tre, quattro volte e ci si alza unicamente per mangiare qualcosa. Quelle giornate che rimpiangi quando ti rendi conto che è andato tutto a puttane, insomma.
Sorprendentemente, non appena le cose hanno cominciato a prendere una brutta piega, anche il laccetto del bracciale ha cominciato a disfarsi lentamente, finché un bel giorno non si è staccato. Io ho smesso di indossarlo per un po’ e lei ci è rimasta male.
Risolsi il problema con un laccio da scarpa, per un po’. Funzionava ma, con il tempo, iniziò ad allentarsi e mi toccava stringerlo spesso, tanto che avevo cominciato a farlo continuamente, quasi fosse un tic.
Spossato dal continuo allentarsi del laccio pensai di sostituirlo con dello spago molto spesso, che, nonostante fosse orrendo alla vista, fece il suo lavoro per qualche tempo ma, inevitabilmente, un bel giorno si sfaldò.
Fu a quel punto che, allo stremo, presi una decisione drastica: utilizzai del fil di ferro e legai il bracciale stretto al polso. Com’è giusto che sia, dopo un paio di docce il fil di ferro cominciò ad ossidarsi e a lasciarmi macchie e graffi sul polso. La pelle cominciò a diventare callosa e irritata e mi bruciava tremendamente.
Il giorno che lei mi ha lasciato ho deciso di togliere quel bracciale ed ho sentito un profondo senso di sollievo.
Una metafora di merda, un legame rappresentato da un legaccio, ma, in fondo, di merda era anche la situazione e tutto il resto, pertanto siamo pari.
Tutto inutile. E’ finita. Tutto quel che mi resta è qualche ferita infetta e purulenta e tanta sete.
Anche la birra è finita,
Rigurgito non è ancora arrivato.
Sono indeciso se prenderne un’altra.
La moldava me la mette davanti senza neanche chiedermelo. Il barista sorride. Vengo qui troppo spesso. Nel frattempo, proprio quando il racconto sembrava destinato a morire sotto i colpi dell’inazione, Rigurgito è entrato nel bar.
– Scusa il ritardo, lo sai come funziona, mia madre si ricorda di tutte le cose che devo fare nel momento esatto in cui metto un piede sullo zerbino.
– Le scuse stanno a zero, Rigù. Ti tocca pagare uno scotch.
– Ti vendi per così poco?
– E allora facciamo doppio.
Rigurgito ridacchia e va al bancone, ritorna dopo qualche secondo armato di due scotch doppi, come da copione.
Mi lascia da solo giusto il tempo di ricoprire frettolosamente di fango tutti quei pensieri, farli scomparire tra le pieghe dei miei neuroni. Non saremo John Wayne o Gary Cooper, the strong, silent type, ma non siamo mai stati capaci di parlare dei nostri amori, come se ci fosse un qualche tipo di blocco, come se sapessimo, in fondo, quanto sia angosciante continuare a parlarne, quanto quel cazzo di fil di ferro continui a raschiarmi strati di pelle ogni volta che nella mente ne rivedo gli occhi, ogni volta che ripenso a una sua frase, ogni volta che la cerco dentro il vuoto.
Tutto ciò che resta è dimenticare.
Dimenticare e re-imparare a sorridere, così da non spaventare le cameriere moldave.