Anna Karenina muore per dispetto.
Mi togli una curiosità? C’è una caratteristica della vagina che è l’equivalente stereotipico del cazzo grande? Voglio dire, c’è qualcosa, nell’universo maschile, che viene considerato un selling point riguardo la fessa?
Mi chiede Irma tra uno stiracchiamento felino e un altro, mentre io mi pulisco il cazzo sulle tende del salotto (che bella cosa non avere un editor, né un qualsivoglia senso comune della decenza). Di tanto in tanto, il suo accento francese mi fa pensare di star scopando con l’ispettore Clouseau. Quello o i baffetti alla Dalì.
Non saprei, Irma, non ci ho mai pensato, credo che l’ideale stereotipico sia una fica stretta, ma non ho mai avuto un riscontro soggettivo dell’importanza o meno di questo fattore.
Come mai?
Ho perso la verginità stamattina.
Vaffanculò.
È molto bella, Irma, di quel bello che quasi ti acceca. Le sue cosce bianche stonavano tremendamente sulle coperte militari della Caritas, che mi ostinavo a definire “Arredamento Situazionista” ma che poteva essere facilmente tradotto in “non ho gusto, non ho soldi, mi litigo i panni usati con gli zingari però mi do’ una parvenza di contegno utilizzando termini mutuati da tesi di laurea di studenti dell’Accademia delle Belle Arti che correggo per non dover fare l’elemosina per pagarmi da bere”.
Ma “Arredamento Situazionista” è indubbiamente più facile e veloce da scrivere e fa decisamente più bella figura sul curriculum.
Stonavano anche sulle tette nere e flaccide da indigena Tawhorii che immaginavo per ritardare l’eiaculazione.
Non che io sia razzista, beninteso, ma per chissà quale oscura associazione neurale, quelle tette flaccide mi fanno pensare ad Indro Montanelli e a quella storia della dodicenne abissina che aveva comprato a 500 lire, per scoparsela ogni 15 giorni, tra uno sterminio di massa di libici e un “eia eia alalà”.
Come dite, mie piccoli amici? Perché allora non penso direttamente ad Indro Montanelli?
Mi si smoscerebbe all’istante, figliuoli cari. Poi, del resto sono così, adoro complicarmi la vita.
Sempre.
Pure quella volta che chiavo.
Ma torniamo ad Irma.
Inverosillabi
Il sole di tardo ottobre non riscalda come vorrei. Sono seduto su una panchina e di buon umore, caso raro di questi tempi.
Mo stiv buon! No poco di cafè, a nonna?
No, grazie nonna. Non mi far perdere il filo.
Anche perché il protagonista di Grazie Nonna! è Giusva Fioravanti, che si stancò di fare l’attore da commedie sexy e decise di diventare un terrorista neofascista ritenuto responsabile della Strage di Bologna (85 morti) e di altri 8 omicidi. Definito dalla sua compagna, Francesca Mambro, anche lei terrorista neofascista, ritenuta responsabile della strage di Bologna e di altri 11 omicidi, come “L’uomo più sensibile che io abbia mai incontrato”….gli Offlaga Disco Pax ci hanno anche fatto un pezzo su sta cosa.…
Ma io stavo parlando di un’altra cosa! Lo vedi, nonna che mi distrai!
Ma che vuò? Sei tu che inventi
ciò che dico man mano che lo scrivi!
Sei una persona veramente disturbata, lo sai?
Dovresti parlare con qualcuno!E basta co sta storia! Sto molto bene.
Sai che ti dico?
Pippo Baudo.
Perché Pippo Baudo? Perché vaffanculo! Ecco perché.
Dicevo.
No, nonna! “Dicevo” lo devo dire io, senò il lettore si confonde!
Maronn a che nipote cacacazz.
Jamm’ ja, dici “Dicevo”
che sta digressione
si sta facendo troppo lunga.DICEVO.
Brav. Pure sottolineato! Sei uno forte, tu!
Sono su una panchina, guardo il mare. Il grecale soffia forte e ci scompiglia i capelli. Linda raccoglie i suoi e ne fa un coda, poggiata sulla sua spalla destra, lasciando scoperto il suo bellissimo collo. Lo guardo e mi viene duro come a Matteo Salvini quando ha saputo degli attentati di Parigi.
Matte Kudasai
E così la stagione delle streghe era durata una manciata di giorni convulsi. La sigaretta appoggiata sul piano getta qualche sbuffo di cenere sulla mia giacca. Roba economica, acquistata per l’occasione. Mai sentito a mio agio con una giacca indosso. Velleità di ribellione, direbbe qualcuno. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Le mie mani seguono il ritmo nella mia testa, lento e cadenzato. Scivolano e fluttuano lentamente, come onde di un mare tranquillo. La pioggia batte creando rivoli sul vetro della finestra. Tutto intorno a me è avvolto da un morbido silenzio, il temporale ed i suoni della città giungono come ovattati alle mie spalle. Le gambe dei tavolini deserti affondano nella moquette bruciacchiata e i bicchieri scintillano nella semioscurità alla luce dei fari delle auto filtrata dalla finestra.
Mantengo la linea di basso con la sinistra. Allungo la destra per versarmi dello scotch. Lagavulin. Affumicato. Invecchiato di sedici anni. Roba costosa, acquistata per l’occasione. Sempre sentito a mio agio con uno scotch costoso in corpo. Un sorso per bruciare le ambizioni. Un altro per la tristezza. Il resto per puro piacere. Questione di priorità. Ma c’erano delle onde. E dei sandali nella sabbia. Lunghi capelli su una schiena nuda. Troppi. Non ci si può mai fidare, di troppi capelli. Le onde continuano a scorrere. Un sorriso. Un ghigno, più che altro. Altro Lagavulin. Il fumo della sigaretta continua a danzare per me. Qualcosa lo smuove. I pensieri, probabilmente. I pensieri sono una porta che si schiude e lascia entrare il freddo. E nel freddo si muovono le ombre, sinuose, che danzano e sfuggono negli angoli degli occhi, scure e inafferrabili. Una carta rotola sulla moquette, sospinta da un vento impercettibile, fino a sbattere contro un piede del pianoforte. Abbasso lo sguardo per osservarla. Raffigura un uomo baffuto a cavallo che porta in mano un piccolo sole. Occhi che mi fissano, alla luce di una candela. La sposto con il piede, la lascio rotolare via. Il bagliore smosso dallo smuoversi dei pensieri riflette parole sperate e non dette.
Sono colata tra le crepe del soffitto come la pioggia d’aprile. Ti ho punterellato le guance. Un bacio. Saliva. Una lacrima. Il mio collo. Il tuo cuore che batte. I tuoi occhi da cane bastonato.
E’ ora di rivestirmi. Ora di andare. Mi trattieni. Mi tiri a te di nuovo. No. Non stavolta. Sono un fantasma.Vorrei ciò che mi spetta. Troppo vento, la tempesta che arriva. La pioggia scroscia. Un’auto in corsa bagna con violenza la finestra. Il ritmo nella mia testa accelera ancora e le mie mani lo seguono. Sorrido. Una collina. Il vento mi sferza la faccia, la pioggia mi punterella, una sensazione già provata. Mi viene da ridere, mi mordo le labbra, cercando di non perdere il ritmo. Non posso permettermelo. Il pezzo deve continuare. C’è ancora Lagavulin. C’è ancora tempesta. La stessa che vidi la prima volta che la guardai negli occhi. Rifugiati nella penombra dei tavolini gli spettri del mio passato osservano con un ghigno. Accompagnano annuendo il mio vagare sugli 88 tasti. Questo non è un jazz, è un esorcismo. Le note ci cullano. Cullano noi, ombre delle nostre emozioni. Non bisogna temerli, i fantasmi. Bisogna imparare a nasconderli per bene sotto il letto. Accarezzarli in segreto quando nessuno più guarda. Pensieri che strangolano il cuore, allo stesso modo di un bicchiere vuoto. Sono bravo a tenere la linea di basso con la sinistra. Di necessità virtù, dicono. C’è sempre qualcuno con un modo di dire appropriato. La bottiglia è sempre più leggera, così come i miei polsi. Forse un tiro dalla sigaretta, prima che si spenga, potrei anche farlo. Occhi che mi fissano, nel riverbero delle candele. Voci, di quelle che ti svegliano all’improvviso la notte. Un ronzio. Le figure, all’interno di un quadro sulla parete, sembrano muoversi. Uomini che corrono su un fondo verde. Scosto lo sguardo altrove, cerco degli occhi. Altra cenere cade, spinta via dal vento dei pensieri come pulviscolo lunare.
E’ ora di andare. C’è polvere su quel quadro. C’è polvere su noi due. Questa casa cade a pezzi, come cado a pezzi io. Attraverserò quelle pareti e scomparirò, questa volta. Siamo solo spettri. Ombre di ciò che eravamo. Come gli amanti di Hiroshima. Impressi per sempre sui muri bianchi dalle fiamme. Ma tutto ciò che c’era di reale ormai è disintegrato. Polvere. Come quella su noi due. Addio.
Lo spettro dai lunghi capelli si solleva dal tavolino. I suoi denti da piranha brillano nella luce lunare. I suoi occhi di tempesta gelano le mie mani. Il mio esorcismo si interrompe, mentre lentamente lei si avvicina a me. Mi accarezza il collo prima di uscire nella pioggia. La porta si chiude con un sospiro. Provo a tenere la linea di basso con la sinistra. Le mie falangi colpiscono una superficie piana. I tasti sono scomparsi. Mi allungo verso il Lagavulin. Al tatto noto che la bottiglia ha cambiato forma. Il sapore stesso sulle mie labbra è diventato dolciastro. Un gin scadente, una bottiglia quasi vuota. Alzo gli occhi e noto il soffitto al neon di ospedale di questo squallido bar di periferia, le carte lanciate e le urla dei vecchi avventori sbronzi che giocano a tressette. La partita che scorre distrattamente, incastonata in uno schermo sulla parete. Un enorme specchio della Peroni, di quelli da boom economico. All’interno dello specchio ci sono io. Al solito posto. Malato del solito male.
Un ghigno. Un’ ombra che sfugge nell’oscurità. Occhi di tempesta che brillano per un impercettibile istante nella luce lunare. La stagione delle streghe finì in una manciata di giorni convulsi. Tutto scompare, quando scompare l’illusione. La più grande illusione di tutte. Come un buco nero risucchia ogni speranza, ogni sogno, qualsiasi bellezza. Tutto ciò che resta è un fondo di bottiglia ed il mio sorriso, quello delle occasioni mancate, il più bello, il più enigmatico il più dolce, il più amaro.
E intanto conto i denti però il conto non mi torna,
ce n’è uno che mi manca e forse tu mi puoi aiutare.
Per caso, non l’hai mica ritrovato a casa tua? Ero così distratto,
amore mio, quando ti ho morso il cuore.–Francesco De Gregori, Souvenir
In the pines.
You’ve caused me to weep,
you’ve caused me to mourn
You’ve caused me to lose my home—In the pines, canzone popolare statunitense
(no, non è di Kurt Cobain, forse il primo ad inciderla è stato il bluesman Leadbelly negli anni ’40,
ma ne esistono un miliardo di versioni diverse, è pur sempre una canzone popolare, cristo).Il senso di straniamento.
Quel limbo in cui ti trovi incasinato quando per un certo periodo di tempo sei così preso dalle cose da fare, dagli impegni, oppure così scazzato, che non ti informi più, non parli più con nessuno, non ti interessi più a nulla. Fai solo quello che devi fare. Magari lo fai anche bene. Ma fai solo quello.
L’alienazione.
Poi un bel giorno, osservi l’orizzonte, quando d’un tratto…
Esiste gente che viene pagata per maniare le zizze e sditalinare le scrofe. Per stimolarle e facilitarne l’inseminazione. Una scrofa arrapata è una scrofa fertile.
[youtube:https://www.youtube.com/watch?v=6q2wKhqdmmw]“E la scrofa se steva!” (grosse citazionE)
Così sorrido in questa torrida notte estiva. Il sudore che si imperla sulla fronte mentre la mia mente vaga alla ricerca delle parole giuste.
Tutto sta nelle parole giuste al momento giusto, ragazzo, dice la parte di me che crede di aver capito qualcosa della vita alla parte di me che invece sa di non aver mai capito un cazzo.
Tutto ciò che si fa spazio, però, alla fine dei giochi, è una tremenda sete.
Apro il frigo. Tutto ciò che trovo per placare la sete orrenda che mi divora dentrrrrroooo è una fottutissima Peroni Chill.
Una.
Peroni.
Chill.
Una volta oltrepassati i drammi e i dubbi di tipo esistenziale-fatalistico (chi cazzo l’ha comprata? Perché? Sono stato io in un raptus di follia? Mi è spuntata una vagina sotto la barba? Fammi controllare un attimo che la prevenzione è tutto),
decido con una scrollata di spalle di dare una simpatica sfumatura di limone alla mia gastrite. Sempre meglio di niente, in fin dei conti. Eccolo il bruciore che mi fascia rassicurante l’esofago. Su certe cose puoi contare.
Che cazzo bevi roba gassata e acida se hai la gastrite, direte voi, miei piccoli amici?
Siamo animali votati all’autodistruzione vi risponderei se fossi il co-protagonista di un romanzo di Palahniuk
ma invece risponderò semplicemente Al Bano.
Lunachòc: Moscow Mule, amore, guerra e cinema di menare.
Tendo pregiudizialmente a tenermi alla larga dai film che vincono gli Oscar.
La vita è troppo breve per perdere tempo dietro alle cose intelligenti e cool,
soprattutto quando ci sono così tanti film con i dinosauri ancora da vedere.
–Stanlio Kubrick, i400calci – Rivista di cinema da combattimento, 8 agosto 2012
Ho un grosso problema.
Uno solo? Dai, non facciamo i modesti!
O meglio ne ho tanti, però oggi voglio parlare di questo.
….
E magari pure di qualche altra cosa, poi vedo, mai stato capace a priori di decidere le cose che scrivo.
Flusso di coscienza direbbe Joyce. Ma io non sono James Joyce,
anche se mi farebbe piacere. Ma se sul ring con me si misurasse chissà quante ne pigliasse…
Ma io non sono neanche Jake la Motta. Anche se mi farebbe piacere. Ma chissà se sul ring… ah no aspè. Pugile.
Chiatto e vecchio, ma pur sempre pugile.
Forse ancora ancora De Niro. Ma non sono sicuro.
No, Ferruccio Amendola, dicevo al vecchietto a cui prestavi la voce. Tu torna in paradiso ad insegnare agli angeli il connubio tra Dixan e Vernel.
Comunque.
Visto che si parla di cinema…
C’è un problema.
Uno solo?
Shhhh. Mi fai perdere il filo.
DIECI motivi per cui PER TE il VINILE è decisamente meglio.
1. Perché tanto sai quattro gruppi in croce. Na volta che ti sei comprato quattro dischi e ne hai regalato un altro alla tipa che hai conosciuto al Circolo degli Artisti tra un cocktail all’amianto da 10 euro e l’altro, che non te l’ha data però non per altro che per una congiunzione sfavorevole di Venere in casa del Capricorno e comunque l’oroscopo di Internaz…
…
basta.
dicevo, con i tuoi bei cinque dischi all’attivo stai a posto.
2. Perché puoi portarli in bella vista sotto le ascelle mentre giri per il centro orgoglioso e sudato. Le copertine in cartone assorbiranno tutti i tuoi preziosi umori e odori. Cosa c’è di più sexy e vissuto di una bell’alone giallastro sulla copertina del White Album?
3. Perché i vinili suonano decisamente meglio.
——————INTERMISSION
Heute Singen Wir mit Heino
Heute Singen Wir mit Heino
Heute Singen Wir mit Heino
Heili Heilo HeilaaaaahHa-Ha Ha-Ha Ha-Ha Ha-Ha
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Come sconfiggere l’ansia vagando in un’astronave.
Ho fatto un sogno strano stanotte.
Una volta tanto non venivo torturato a sangue da qualcuno convinto mi scopassi la sua ragazza.
Oddio nei sogni di solito me le scopo per davvero. Ma mi beccano sempre. E incazzati come le belve mi prendono, mi legano, mi incatenano a dei dischi di Norimberga e cominciano a sezionarmi, tipo qualche volta mi tagliano il cazzo (che in fondo ha senso), le palle (pure questo), le mani o direttamente le braccia (questo pure), la lingua (eh si, questo ha molto senso), i piedi (no, questo per qualcuno potrebbe avere senso, però per me non tanto), a volte mi hanno dato fuoco…una volta mi hanno riempito di benzina le spalle (analisti freudiani, che ne pensate?) e spesso mi cavano i bulbi oculari con un cucchiaio facendomi gridare così tant-
Va bè ho reso l’idea.
Torniamo a noi.
Ho fatto questo sogno, dicevamo. Ero in un corridoio stretto e senza luce, claustrofobico, che ricordava molto i corridoi della nave Nostromo in Alien
Io vi vagavo, spaventato, senza sapere dove andare, pieno di ansie, paure, frustrazioni. Il cuore batteva come la cassa di una serata frenchcore (e forse c’era anche del frenchcore in sottofondo, ma non ci metterei la mano sul fuoco).
Come fu, come non fu, nella mia marcia del terrore mi imbatto in qualcosa di assurdo.
NO.
Anche se mi sarebbe piaciuto.
NEANCHE.
Per fortuna.
Mi sono trovato davanti un display touchscreen.