Esizialesimo

Sostanzialmente qui parliamo di cose deprimenti, tristi e meste, ma con poca supponenza.«L'esiziale è invivibile agli occhi» - Antoine Jean Baptiste Marie Roger de Saint-Exupéry, per gli amici RoBBerto Saviano.

  • Esizialesimo

    Il Calypso dell’Allegoria.

    Calypso
    Giustappunto (art by Marubad).

     

    #Calipso è una Dea del Mare,

    Immortale, bellissima, disinibita, riservata, birichina, sottomessa, morbida e pulita: chiamare al +393281660051 chiedendo di “Anna”,  solo nelle ore di scuola che col criaturo a casa non è cosa, LaMMerda si tiene pure un cazzo in culo (tutto mamma sua 💕) ma una parola mai!

    Su prenotazione si effettuano depilazioni, aborti, consulenze finanziarie, revisioni di articoli scientifici e pizze fritte, ma solo nel fine settimana.

    Leggenda narra che si innamorò di Ulisse, il quale dopo essersela spassata per sette anni, rifiutò l’immortalità e andò a piangere dalla Signora Maestra Atena perché Calipso non lo faceva ascì, ma lui se ne voleva tornare ad Itaca, da quella vecchia cuperta intesechita di Penelope, che certamente gli era stata fedele, preferendo fare la cazetta piuttosto che cedere alle lusinghe dei numerosi pretendenti.

    Noi facciamo finta di crederci, perché è ciò che ci racconta Omero ne L’Odissea.

    Omero, uno che non si sa nemmeno se sia esistito veramente. Per quanto ne sappiamo, poteva essere anche solo un intercalare usato quando tramandavano oralmente i pettegolezzi  finito per essere poi considerato come il nome dell’autore quando le hanno raccolte in forma scritta.

    O forse era una specie di hashtag con il quale si categorizzavano i contenuti: se trovavi scritto alla fine di un testo “Omero” sapevi già che si trattava di un particolare tipo di poema epico, esattamente come succede oggi sui siti porno.

    Per quello che me ne fotte, potrebbe benissimo essere Liberato tornato indietro nel tempo, ma se proprio me lo chiedete (e so che morite dalla voglia di farlo), in quanto avente diritto alla mia opinione non supportata da evidenze minimamente valide, affermo con inusitata certezza che Omero è il nome d’arte di una buciarda cretina (pure se è maschio), tra la quarantina e +∞, cresciuta a pane integrale di segale, romanzi Harmony e “Tempesta d’Amore”, i cui riferimenti culturali più elevati sono Gigliola Cinquetti e La Principessa Sissi (volevo scrivere “Il Piccolo Principe”, solo che da quando s’è saputo che è il libro preferito di Virginia Raggi e Alberto Stasi, è un po’ troppo inflazionato).

    Essa vive a Fiesole, ma ama molto Capri, perché c’è il mare. Fine biografia.

    Per intenderci, è una di quelle petulanti frangipalle alla quale non rispondono più nemmeno i gatti castrati quando li chiama per la pappa, preferendo essi morire di stenti o andarsi a tuffare nella friggitrice del più vicino ristorante con coniglio a menù, piuttosto che continuare a sentirla.

    Essendo sola e vuota, si votta a fare qualsiasi cosa per coprire lo scalpiccio della Morte che si avvicina:

    La perpetua; la promoter; la mamma a tempo pieno (pure se è zitella); la sceneggiatrice di fiction Rai; la porta della ragazza accanto; la naturopata; l’insegnante di islandese ai bambini sfortunati di avere lei come insegnante (pur padroneggiando solo l’astigiano e la lingua farfallina); la ragazza del Coyote Ugly; la levatrice; la supertestimone di quassiasicosa; l’esperto che dice cose negli articoli scritti con pressapochismo ed inevitabilmente, siccome per disgrazia legge e scrive, finisce a fare anche l’autrice che da voce alle odissee quotidiane delle giovani donne/uome/cane/vecchie protagoniste del loro tempo e dilapidatrici del nostro.

    Ha un discreto successo, perché come lei ce ne sono diverse ed è noto alla Scienza che i simili si supportano ed incoraggiano per associazionismo darwiniano (“Amoreee! Ma sei bravissimaaa, a quando un manoscritto?”), concetto elegantemente reso dall’espressione “merda e merda fa scopa”.

    Praticamente parlo di vostra zia o di voi tra pochi anni, pure se siete maschio.

    Se c’è qualcuno che sta già prendendo la rincorsa per rinfacciarmi che l’Odissea c’ha millantasette anni, quindi ho scritto un vaniloquio paradossale, pieno di banali clichés, imprecisioni e riprovevole misoginia, non posso che dirgli:

     

     

    VAFFANCULO!

     

  • Esizialesimo

    Marocchino di Merda.

    Cavone
    Napoli, Cavone (Foto originale di Silvana Bernardelli)

    È una calda sera di Luglio.

    Una brezza, singhiozzante,  si leva da Nord-Ovest e giunge dal Tirreno fino alle mie narici:
    o è passata da Pozzuoli, o sono i bidoni ‘ra munnezza che ruttano.

    Bollettino dei naviganti

    “Il faro di Capocozzo si è spento, fare attenzione. Mari: Mare Adriatico fermo, per manutenzione.”

    Non è il solito torrido morire, ci sarebbero le premesse per una serata piacevole, se non fosse per il fetore che si leva dei rigagnoli di urina, serpenti giallognoli che si intrecciano sensualmente in un sottobosco di basole logore, sino ad unirsi in una threesome idrofobica col rivolo di olio di semi di pneumatico che testé viene sversato nella saittella.

    Un momento davvero imbarazzante per la Chimica.

    Una blatta rossa (Periplaneta americana) schizza dal tombino e fugge via a gran velocità, allarmata. Credo stia urlando e che sia terrorizzata. La sento invocare su di sé la protezione di tutti i santi verso i quali una blatta può indirizzare le proprie preghiere:

    San Francesco D’Assisi; Santi Burroughs e Cronenberg; Santissimo Franz K. e Sant’Organica.

    Una macchia grigia all’angolo del marciapiede, confusa tra cumuli di bollette perse, si rivela essere un zucculone (Rattus norvegicus) martoriato, ma tutt’altro che morto: con sicuro guizzo, addenta la croccante blatta.

    Vatti ad affidare ai Santi.

    Nemmeno il tempo di digerire, che la vita del ratto sublima nello spazio dei ricordi con uno squittio calante: un cane malconcio (Canis familiaris) lo ha afferrato e squartato, ma vedendomi avvicinare, per timore che avanzi pretese sulla preda, si allontana tenendola tra le zanne.

    Viene travolto da un Liberty 50 (Piaggius cinquantinus libertinensis sp.) con livrea crema e bande cromate, credo un maschio. Il sub-adulto di Homo Sapiens alla guida si è fatto molto male cadendo, ma la sua agonia ha presto termine: subitamente, un adulto della sua specie a cavallo di una Transalp (Motocyclus sicarii), lo fredda con tre colpi di arma da fuoco, spedendo tutti i suoi sogni incompiuti nell’Iperuranio (o in uno scasso fuori Torre Annunziata, mi confondo sempre).

    Per pietas o perché aveva sconfinato?

    Il quesito ha giusto il tempo di prender forma, che l’adulto cambia stato fisico, omogeneizzato dal metallo brunito di un SUV che mio Padre al mercato comprò.

    Sono sconvolto, sono perso, sono confuso.

    Mi guardo intorno e – incredulo – vedo un Saviano in bianco e nero, scalzo e con un saio da jedi, che annuisce e mi sorride.
    Si gira e bacia una croce di legno, poi punta lo sguardo di lato, verso il vuoto, si passa una mano sul capocchione sudato e, dopo aver riposto la moleskine con la freschissima sceneggiatura sotto al saio con fare da zingara, si inerpica in un pippone polveroso su come la vicenda gli abbia riportato alla mente quella notte del 24 Agosto, a Parigi, quando poco più che bimbo, non riusciva a capire cosa stesse succedendo intorno a lui e mille e più “Perché?” andavano ad affollare la sua pargola coscientia.

    Era la notte di San Bartolomeo del 1572, doveva essere un dì di festa (pure se era notte) e invece furono massacrati migliaia di ugonotti. Oggi, mezzo millennio dopo,  i suoi “Perché?” sono ancora lì, irrisolti e gravati dagli anni.

    Chiudo gli occhi, scuoto la testa, urlo. Non può essere reale! Non è possibile!

    Li riapro e PORCOILCAZZO!
    ‘Sti maledetti fumi lisergici del kebab fanno brutti scherzi! Dovrebbero vietarli, Cristiddio!

    Il caniello però era vero: a metà strada tra un deperito Dogmeat – loppide di Fallout 3 –  ed un peluche dopo una centrifuga di troppo.

    Tipo così, ma con il 130% di fame e disperazione aggiunte.
    Tipo così, ma con il 130% di fame e disperazione aggiunte

    Gli sguardi si incrociano ed io rompo il silenzio:

    «Ciao, embe’?»

    Si gira e va via. La posteriore sinistra è grande come il prosciutto di un maiale, sarà un tumore. Povera bestia, chissà quanto soffre…

    Speriamo non finisca in un kebab, che i tumori si masticano con difficoltà.

    Basta distrazioni! La situazione è critica, devo fare in fretta!

    Non li vedo, ma so che son lì a scrutarmi, nascosti dietro le tende, camuffati nelle anse buie di queste stradine contorte come viscere di capra. Ne avverto il fetore nauseabondo, costantemente a pochi palmi da me, come mi seguisse.

    Con la coda dell’occhio posso quasi vederlo, quel marocchino di merda affacciato al balcone! Tutto spavaldo, che attende solo una mia debolezza, un mio stupido errore, per fottermi e derubarmi anche della dignità!

    Stronzi.

    Invadono clandestinamente i nostri spazi più intimi, più fraterni e ci scorticano ferinamente dall’interno, sventrandoci senza onore o pietà.

    Accelero il passo, ma di poco.

    Questi sporchi pezzi di merda fiutano la paura! Anche in quest’aria così pesante da non permettere al vento di diluirne il tanfo. Nella luce gialla del lampione intravedo fiocchi di fetenzia in sospensione, sento quelle spore di lordura incestarsi nelle pieghe dei jeans e filtrare attraverso le fibre della maglietta, fino ad avvilupparsi in un nefando abbraccio col manto idrolipidico della mia pelle.

    Il puzzo acre del sudore stantio mi è insopportabile.

    Smetto di inspirare col naso e filtro l’aria tra i denti, con respiri corti e convulsi. Funziona per pochissimo, poi sento lo sporco incatramarsi sulla mia lingua.

    Ho la nausea. Potrei vomitare.

    Devo stare calmo. CALMO.

    Una minima distrazione, una singola contrazione superflua e potrebbe scatenarsi l’inferno. Devo mantenere il controllo assoluto di ogni mia fibra.

    Eccolo, il portone! Posso farcela. DEVO farcela. Le chiavi! Qual è? Quale cazzo è? Perché non apre! Apriti cazzo! APRITI!

    *TLACK*

    Sono dentro.

    È fatta.

    Adesso scusatemi un attimo…

    * * * 15 Minuti Dopo * * *

    MAMMAMA’! E CHE CACATONE!

    Avrò perso quanto, cinque chili? Cristo, non riesco a camminare, sono sbilanciato da un lato, ahahah! E comm’ mi feta l’ascella poi! Questa maglietta non la esorcizzo nemmanco col Last a limone, è solo da bruciare.

    Comunque, mai più cena da Amir. MAI.

    Il pollo in salsa all’arancia con hummus sarà pure buono, ma ti svergina il culo da dentro! Ho visto gente incamminarsi sul sentiero della follia per molto meno!

    La Vita è Guerra.
    Una Guerra Fredda
    tra Voi e il vostro Intestino.

    Pensavate fosse un pezzo razzista?

    Sciocchini! Ce l’avevo semplicemente a punta di coltello da ore!

    In fondo però,  il Razzismo pure è ‘na cacata.

    Non nego che il mondo sia pieno di stronzi, piacerebbe anche a me poterli discernere e allontanare usando come filtro comode etichette quali Cultura, Etnia, ColoreNumero di Tette, Provenienza o Fisiognomica.

    Purtroppo però, con buona pace di Lombroso (Scusa a Ce’!), non funziona così, nemmeno per quelli della Lazio.

    Le uniche caratteristiche che accomunano tutti gli stronzi son solo due:

    La prima è che – tautologicamente – son stronzi. L’altra è che nascono, crescono e si riproducono di continuo dentro e fuori di noi, per tutta la nostra vita e non potremo mai sbarazzarcene completamente.

    Per gestirli, il mio consiglio è semplice:

    Dieta ricca in fibre, attività fisica e prendere la sana abitudine di portarsi SEMPRE al cesso, oltre alla salvifica carta e al fidato cappello per proteggerci la testa dal sole (specialmente d’Estate), un buon coltello, possibilmente full tang.

    Alle volte son veramente grossi e cattivi, anche più di chi li partorisce.

    Survival Kit da toilette
    Il tuo peggior nemico è dentro di te. Difenditi!

    * * *

    Dedicato al fratello Mohamir, nella speranza che possa essere vivo, da qualche parte.

    Se fossi morto, che tu possa insegnare agli angeli a dire “Polisia bashtarda, vafanculo, telo fasho vedere io, peso di merda!”, piccolo grande delinquente di Casablanca e coi denti rotti.

  • Esizialesimo,  Umani Casi

    Anna Karenina muore per dispetto.

    Mi togli una curiosità? C’è una caratteristica della vagina che è l’equivalente stereotipico del cazzo grande? Voglio dire, c’è qualcosa, nell’universo maschile, che viene considerato un selling point riguardo la fessa?

    Mi chiede Irma tra uno stiracchiamento felino e un altro, mentre io mi pulisco il cazzo sulle tende del salotto (che bella cosa non avere un editor, né un qualsivoglia senso comune della decenza). Di tanto in tanto, il suo accento francese mi fa pensare di star scopando con l’ispettore Clouseau. Quello o i baffetti alla Dalì.

    Non saprei, Irma, non ci ho mai pensato, credo che l’ideale stereotipico sia una fica stretta, ma non ho mai avuto un riscontro soggettivo dell’importanza o meno di questo fattore.

    Come mai?

     

    Ho perso la verginità stamattina.

     

    Vaffanculò.

     

    È molto bella, Irma, di quel bello che quasi ti acceca. Le sue cosce bianche stonavano tremendamente sulle coperte militari della Caritas, che mi ostinavo a definire Arredamento Situazionista” ma che poteva essere facilmente tradotto in “non ho gusto, non ho soldi, mi litigo i panni usati con gli zingari però mi do’ una parvenza di contegno utilizzando termini mutuati da tesi di laurea di studenti dell’Accademia delle Belle Arti che correggo per non dover fare l’elemosina per pagarmi da bere”.

    Ma Arredamento Situazionista” è indubbiamente più facile e veloce da scrivere e fa decisamente più bella figura sul curriculum.

    Stonavano anche sulle tette nere e flaccide da indigena Tawhorii che immaginavo per ritardare l’eiaculazione.

    Un fatto così.
    Un fatto così.

    Non che io sia razzista, beninteso, ma per chissà quale oscura associazione neurale, quelle tette flaccide mi fanno pensare ad Indro Montanelli e a quella storia della dodicenne abissina che aveva comprato a 500 lire, per scoparsela ogni 15 giorni, tra uno sterminio di massa di libici e un “eia eia alalà”.

    Come dite, mie piccoli amici? Perché allora non penso direttamente ad Indro Montanelli?

    Mi si smoscerebbe all’istante, figliuoli cari. Poi, del resto sono così, adoro complicarmi la vita.

     

     

    Sempre.

     

     

     

    Pure quella volta che chiavo.

     

     

    Ma torniamo ad Irma.

  • Esizialesimo,  Umani Casi

    Inverosillabi

    Il sole di tardo ottobre non riscalda come vorrei. Sono seduto su una panchina e di buon umore, caso raro di questi tempi.

    Mo stiv buon! No poco di cafè, a nonna?

     

    No, grazie nonna. Non mi far perdere il filo.
    Anche perché il protagonista di Grazie Nonna! è Giusva Fioravanti, che si stancò di fare l’attore da commedie sexy e decise di diventare un terrorista neofascista ritenuto responsabile della Strage di Bologna (85 morti) e di altri 8 omicidi. Definito dalla sua compagna, Francesca Mambro, anche lei terrorista neofascista, ritenuta responsabile della strage di Bologna e di altri 11 omicidi, come “L’uomo più sensibile che io abbia mai incontrato”….gli Offlaga Disco Pax ci hanno anche fatto un pezzo su sta cosa.

    Ma io stavo parlando di un’altra cosa! Lo vedi, nonna che mi distrai!

    Ma che vuò? Sei tu che inventi
    ciò che dico man mano che lo scrivi!
    Sei una persona veramente disturbata, lo sai?
    Dovresti parlare con qualcuno!

    E basta co sta storia! Sto molto bene.

    Sai che ti dico?

    Pippo Baudo.

    Pippo Baudo: rattuso dal 1936
    Pippo Baudo: rattuso dal 1936

    Perché Pippo Baudo? Perché vaffanculo! Ecco perché.

    Dicevo.

    No, nonna! “Dicevo” lo devo dire io, senò il lettore si confonde!

    Maronn a che nipote cacacazz.
    Jamm’ ja, dici “Dicevo
    che sta digressione
    si sta facendo troppo lunga.

    DICEVO.

    Brav. Pure sottolineato! Sei uno forte, tu!

    Sono su una panchina, guardo il mare. Il grecale soffia forte e ci scompiglia i capelli. Linda raccoglie i suoi e ne fa un coda, poggiata sulla sua spalla destra, lasciando scoperto il suo bellissimo collo. Lo guardo e mi viene duro come a Matteo Salvini quando ha saputo degli attentati di Parigi.

  • Esizialesimo

    Matte Kudasai

    E così la stagione delle streghe era durata una manciata di giorni convulsi. La sigaretta appoggiata sul piano getta qualche sbuffo di cenere sulla mia giacca. Roba economica, acquistata per l’occasione. Mai sentito a mio agio con una giacca indosso. Velleità di ribellione, direbbe qualcuno. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Le mie mani seguono il ritmo nella mia testa, lento e cadenzato. Scivolano e fluttuano lentamente, come onde di un mare tranquillo. La pioggia batte creando rivoli sul vetro della finestra. Tutto intorno a me è avvolto da un morbido silenzio, il temporale ed i suoni della città giungono come ovattati alle mie spalle. Le gambe dei tavolini deserti affondano nella moquette bruciacchiata e i bicchieri scintillano nella semioscurità alla luce dei fari delle auto filtrata dalla finestra.


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    Warm beer and cold women, I just don’t fit in every joint I stumbled into tonight

     

     

    Mantengo la linea di basso con la sinistra. Allungo la destra per versarmi dello scotch. Lagavulin. Affumicato. Invecchiato di sedici anni. Roba costosa, acquistata per l’occasione. Sempre sentito a mio agio con uno scotch costoso in corpo. Un sorso per bruciare le ambizioni. Un altro per la tristezza. Il resto per puro piacere. Questione di priorità. Ma c’erano delle onde. E dei sandali nella sabbia. Lunghi capelli su una schiena nuda. Troppi. Non ci si può mai fidare, di troppi capelli. Le onde continuano a scorrere. Un sorriso. Un ghigno, più che altro. Altro Lagavulin. Il fumo della sigaretta continua a danzare per me. Qualcosa lo smuove. I pensieri, probabilmente. I pensieri sono una porta che si schiude e lascia entrare il freddo. E nel freddo si muovono le ombre, sinuose, che danzano e sfuggono negli angoli degli occhi, scure e inafferrabili. Una carta rotola sulla moquette, sospinta da un vento impercettibile, fino a sbattere contro un piede del pianoforte. Abbasso lo sguardo per osservarla. Raffigura un uomo baffuto a cavallo che porta in mano un piccolo sole. Occhi che mi fissano, alla luce di una candela. La sposto con il piede, la lascio rotolare via. Il bagliore smosso dallo smuoversi dei pensieri riflette parole sperate e non dette.

     

     

    Sono colata tra le crepe del soffitto come la pioggia d’aprile. Ti ho punterellato le guance. Un bacio. Saliva. Una lacrima. Il mio collo. Il tuo cuore che batte. I tuoi occhi da cane bastonato.
    E’ ora di rivestirmi. Ora di andare. Mi trattieni. Mi tiri a te di nuovo. No. Non stavolta. Sono un fantasma.

     

    Quanti capelli che hai, non si riesce a contare. Sposta la bottiglia e lasciamo guardare.
    Quanti capelli che hai, non si riesce a contare. Sposta la bottiglia e lasciami guardare.

    Vorrei ciò che mi spetta. Troppo vento, la tempesta che arriva. La pioggia scroscia. Un’auto in corsa bagna con violenza la finestra. Il ritmo nella mia testa accelera ancora e le mie mani lo seguono. Sorrido. Una collina. Il vento mi sferza la faccia, la pioggia mi punterella, una sensazione già provata. Mi viene da ridere, mi mordo le labbra, cercando di non perdere il ritmo. Non posso permettermelo. Il pezzo deve continuare. C’è ancora Lagavulin. C’è ancora tempesta. La stessa che vidi la prima volta che la guardai negli occhi. Rifugiati nella penombra dei tavolini gli spettri del mio passato osservano con un ghigno. Accompagnano annuendo il mio vagare sugli 88 tasti. Questo non è un jazz, è un esorcismo. Le note ci cullano. Cullano noi, ombre delle nostre emozioni. Non bisogna temerli, i fantasmi. Bisogna imparare a nasconderli per bene sotto il letto. Accarezzarli in segreto quando nessuno più guarda. Pensieri che strangolano il cuore, allo stesso modo di un bicchiere vuoto. Sono bravo a tenere la linea di basso con la sinistra. Di necessità virtù, dicono. C’è sempre qualcuno con un modo di dire appropriato. La bottiglia è sempre più leggera, così come i miei polsi. Forse un tiro dalla sigaretta, prima che si spenga, potrei anche farlo. Occhi che mi fissano, nel riverbero delle candele. Voci, di quelle che ti svegliano all’improvviso la notte. Un ronzio. Le figure, all’interno di un quadro sulla parete, sembrano muoversi. Uomini che corrono su un fondo verde. Scosto lo sguardo altrove, cerco degli occhi. Altra cenere cade, spinta via dal vento dei pensieri come pulviscolo lunare.

     

    E’ ora di andare. C’è polvere su quel quadro. C’è polvere su noi due. Questa casa cade a pezzi, come cado a pezzi io. Attraverserò quelle pareti e scomparirò, questa volta. Siamo solo spettri. Ombre di ciò che eravamo. Come gli amanti di Hiroshima. Impressi per sempre sui muri bianchi dalle fiamme. Ma tutto ciò che c’era di reale ormai è disintegrato. Polvere. Come quella su noi due. Addio.

    Lo spettro dai lunghi capelli si solleva dal tavolino. I suoi denti da piranha brillano nella luce lunare. I suoi occhi di tempesta gelano le mie mani. Il mio esorcismo si interrompe, mentre lentamente lei si avvicina a me. Mi accarezza il collo prima di uscire nella pioggia. La porta si chiude con un sospiro. Provo a tenere la linea di basso con la sinistra. Le mie falangi colpiscono una superficie piana. I tasti sono scomparsi. Mi allungo verso il Lagavulin. Al tatto noto che la bottiglia ha cambiato forma. Il sapore stesso sulle mie labbra è diventato dolciastro. Un gin scadente, una bottiglia quasi vuota. Alzo gli occhi e noto il soffitto al neon di ospedale di questo squallido bar di periferia, le carte lanciate e le urla dei vecchi avventori sbronzi che giocano a tressette. La partita che scorre distrattamente, incastonata in uno schermo sulla parete. Un enorme specchio della Peroni, di quelli da boom economico. All’interno dello specchio ci sono io. Al solito posto. Malato del solito male.

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    «Alcohol is like love», he said. «The first kiss is magic, the second is intimate, the third is routine. After that you take the girl’s clothes off».

    Un ghigno. Un’ ombra che sfugge nell’oscurità. Occhi di tempesta che brillano per un impercettibile istante nella luce lunare. La stagione delle streghe finì in una manciata di giorni convulsi. Tutto scompare, quando scompare l’illusione. La più grande illusione di tutte. Come un buco nero risucchia ogni speranza, ogni sogno, qualsiasi bellezza. Tutto ciò che resta è un fondo di bottiglia ed il mio sorriso, quello delle occasioni mancate, il più bello, il più enigmatico il più dolce, il più amaro.

    E intanto conto i denti però il conto non mi torna,
    ce n’è uno che mi manca e forse tu mi puoi aiutare.
    Per caso, non l’hai mica ritrovato a casa tua? Ero così distratto,
    amore mio, quando ti ho morso il cuore.

    –Francesco De Gregori, Souvenir

  • Esizialesimo

    Anacronistica – Una Storia D’Amore.

    Alessandria d’Egitto, 50 a.c.

     

    Alessandria D'Egitto (SA), foto di Anna.
    Alessandria D’Egitto (SA), foto di Anna.

     

    Il sole sta tramontando sulla cosmopolita città, ancora brulicante di vita.

    Una brezza spira da ovest verso la costa, increspando appena la superficie del mare che, giocando con gli ultimi raggi di sole, crea mesmerici luccichii.
    Porta con sé gli odori salmastri del Mediterraneo che vanno mescolandosi ai profumi dei semi di sesamo, del cilantro fresco, dell’acqua di rose e del raù, tipici della cucina locale, mentre i gabbiani ancora strillano nei cieli e inseguono, instancabili come cyborg, le martoriate tortore.

    Un pescatore, nella sua varchetella, cala le nasse a mare e canta:

    Vicin’ o’ mare
    facimmo ‘ammore,
    a core a core,
    pe’ nce spassà.
    So’ marenare
    e tiro ‘a rezza:
    ma p’allerezza,
    stong’a murì…

    Sicuramente non è oriundo.

    Gli uomini rincasano dopo il duro lavoro nei campi, in mare, in biblioteca o in un parcheggio. Tra di loro c’è Vasile, muratore della Dacia, che, incamminatosi verso la sua umile dimora, lascia il pensier suo volare alla moglie e ai figli lontani.
    Pensa a quando metterà da parte abbastanza pezzi da otto per poter finalmente tornare a Costeşti e riabbracciarli.
    Pensa anche che sarebbe il caso di smetterla di fare “offerte” a quella sacerdotessa di Iside, perché, la sporca, gli sta svuotando costantemente anche il portafogli.
    Pensa che quindi è meglio optare per un solipsistico pescimmano, almeno stasera.

    Sull’isoletta di Faro già si sente il pungente odore di nafta, trasportata dagli addetti al faro, ormai prossimo all’accensione. Sotto l’imponente statua di Zeus o Poseidone, più tardi sostituita da quella di Helios (Mi avete sgamato! Copiavo da wikipedia, mannaggiasantella!) DJ TeofrastoK e Aristarco “Peppe” DJ fanno il soundcheck e si preparano per la seratona che li vedrà sfidarsi, a colpi di brani revival anni ’80, nel contest di silent disco bisettimanale.

    Dai vicoli del porto si ode la voce di una donna amorevole che chiama il suo gatto:

    «Miao! Smettila di correre dietro a mio figlio e vieni, la cena è pronta!»

    «Frrrrrr! Miao! Frrrrrr! Puuurrrgnao!» – Disse il gatto.

    «Mamma, posso avere qualcosina anche io?» – Disse il figlio.

    «Certo Klitennestro, le tue teste di pesce sono lì a terra nella scodella, ma leva le zampe dal tavolo, sennò m’incazzo!» – Disse la mamma.

  • Esizialesimo,  Umani Casi

    In the pines.

    You’ve caused me to weep,
    you’ve caused me to mourn
    You’ve caused me to lose my home

    In the pines, canzone popolare statunitense

    (no, non è di Kurt Cobain, forse il primo ad inciderla è stato il bluesman Leadbelly negli anni ’40,
    ma ne esistono un miliardo di versioni diverse, è pur sempre una canzone popolare, cristo).

    Se potessi, questa foto la intitolerei "The Pulse of Americana", come la playlist di Spotify, andatevela a sentire, pischelletti.
    Se potessi, questa foto la intitolerei “The Pulse of Americana”, come la playlist di Spotify, andatevela a sentire, pischelletti.

    Il senso di straniamento.

    Quel limbo in cui ti trovi incasinato quando per un certo periodo di tempo sei così preso dalle cose da fare, dagli impegni, oppure così scazzato, che non ti informi più, non parli più con nessuno, non ti interessi più a nulla. Fai solo quello che devi fare. Magari lo fai anche bene. Ma fai solo quello.

    L’alienazione.

    Poi un bel giorno, osservi l’orizzonte, quando d’un tratto…

    ti ricordi!

     

     

    Esiste gente che viene pagata per maniare le zizze e sditalinare le scrofe. Per stimolarle e facilitarne l’inseminazione. Una scrofa arrapata è una scrofa fertile.

    [youtube:https://www.youtube.com/watch?v=6q2wKhqdmmw]

    “E la scrofa se steva!” (grosse citazionE)

     

    Così sorrido in questa torrida notte estiva. Il sudore che si imperla sulla fronte mentre la mia mente vaga alla ricerca delle parole giuste.

    Tutto sta nelle parole giuste al momento giusto, ragazzo, dice la parte di me che crede di aver capito qualcosa della vita alla parte di me che invece sa di non aver mai capito un cazzo.

     

    Tutto ciò che si fa spazio, però, alla fine dei giochi, è una tremenda sete.

     

    Apro il frigo. Tutto ciò che trovo per placare la sete orrenda che mi divora dentrrrrroooo è una fottutissima Peroni Chill.

    Una.

    Peroni.

    Chill.

     

    Una volta oltrepassati i drammi e i dubbi di tipo esistenziale-fatalistico (chi cazzo l’ha comprata? Perché? Sono stato io in un raptus di follia? Mi è spuntata una vagina sotto la barba? Fammi controllare un  attimo che la prevenzione è tutto),

     

    decido con una scrollata di spalle di dare una simpatica sfumatura di limone alla mia gastrite. Sempre meglio di niente, in  fin dei conti. Eccolo il bruciore che mi fascia rassicurante l’esofago. Su certe cose puoi contare.

     

     

     

    Che cazzo bevi roba gassata e acida se hai la gastrite, direte voi, miei piccoli amici?

     

     

    Siamo animali votati all’autodistruzione vi risponderei se fossi il co-protagonista di un romanzo di Palahniuk

     

     

    ma invece risponderò semplicemente Al Bano.

    Si, Al Bano.
    Si, Al Bano.