Anna Karenina muore per dispetto.
Mi togli una curiosità? C’è una caratteristica della vagina che è l’equivalente stereotipico del cazzo grande? Voglio dire, c’è qualcosa, nell’universo maschile, che viene considerato un selling point riguardo la fessa?
Mi chiede Irma tra uno stiracchiamento felino e un altro, mentre io mi pulisco il cazzo sulle tende del salotto (che bella cosa non avere un editor, né un qualsivoglia senso comune della decenza). Di tanto in tanto, il suo accento francese mi fa pensare di star scopando con l’ispettore Clouseau. Quello o i baffetti alla Dalì.
Non saprei, Irma, non ci ho mai pensato, credo che l’ideale stereotipico sia una fica stretta, ma non ho mai avuto un riscontro soggettivo dell’importanza o meno di questo fattore.
Come mai?
Ho perso la verginità stamattina.
Vaffanculò.
È molto bella, Irma, di quel bello che quasi ti acceca. Le sue cosce bianche stonavano tremendamente sulle coperte militari della Caritas, che mi ostinavo a definire “Arredamento Situazionista” ma che poteva essere facilmente tradotto in “non ho gusto, non ho soldi, mi litigo i panni usati con gli zingari però mi do’ una parvenza di contegno utilizzando termini mutuati da tesi di laurea di studenti dell’Accademia delle Belle Arti che correggo per non dover fare l’elemosina per pagarmi da bere”.
Ma “Arredamento Situazionista” è indubbiamente più facile e veloce da scrivere e fa decisamente più bella figura sul curriculum.
Stonavano anche sulle tette nere e flaccide da indigena Tawhorii che immaginavo per ritardare l’eiaculazione.
Non che io sia razzista, beninteso, ma per chissà quale oscura associazione neurale, quelle tette flaccide mi fanno pensare ad Indro Montanelli e a quella storia della dodicenne abissina che aveva comprato a 500 lire, per scoparsela ogni 15 giorni, tra uno sterminio di massa di libici e un “eia eia alalà”.
Come dite, mie piccoli amici? Perché allora non penso direttamente ad Indro Montanelli?
Mi si smoscerebbe all’istante, figliuoli cari. Poi, del resto sono così, adoro complicarmi la vita.
Sempre.
Pure quella volta che chiavo.
Ma torniamo ad Irma.
Venditori di cazettini – Parte II
La prima la trovate QUI.
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IL POLICLINICO UNIVERSITARIO FEDERICO 2.
Due anni fa, Primavera.
Uno di quei tipici giorni di Marzo, quando pioviggina come un telefono della doccia ostruito dal calcare, mentre in cielo c’è ancora il sole come… come… niente, non mi viene la similitudine.Ho detto Policlinico Federico II, quindi siamo a NAPOLI, la città dove quando c’è il sole, tutti sentono l’incessante impellenza di andare sugli scogli a Mergellina, mentre quando piove, tutti si convincono di essere biodegradabili e solubili in acqua e allora prendono l’auto anche per andare a comprare le sigarette, cominciando a suonare il clacson mentre rimangono incastrati nel traffico della tangenziale a Corso Malta (che è punto di snodo stradale fondamentale, anche se ti devi solo alzare dal letto per andare alla toilette).
Traete da soli le conclusioni e immaginate quello che può succedere quando piove e c’è il sole, contemporaneamente.
Mi ero svegliato con una tremenda voglia di kinder bueno e non avendone, decisi di recarmi presso il più vicino centro trasfusionale e barattarne uno in cambio di una sacca del mio sangue.
Stolti.
Non sanno che ogni volta infetto i loro pazienti con il mio pessimismo, quei malati non guariranno mai! E mi pagano anche coi kinder bueno per farlo! AHAHAHA!Dopo la mia cattiva azione, me ne andai all’edificio 12, per fare quattro chiacchiere e scroccare un caffè al mio specializzando preferito, che chiamerò, traendo spunto da un personaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie, con il nome di fantasia “Bianco Paolo”.
Sorbito il caffè nella saletta con gli infermieri e fatte le quattro chiacchiere farcite, come al solito, di sospiri, risate e bestemmie, pensavo non mi rimanesse null’altro da fare che tornarmene affanculo, invece mancava ancora una cosa: