Matte Kudasai
E così la stagione delle streghe era durata una manciata di giorni convulsi. La sigaretta appoggiata sul piano getta qualche sbuffo di cenere sulla mia giacca. Roba economica, acquistata per l’occasione. Mai sentito a mio agio con una giacca indosso. Velleità di ribellione, direbbe qualcuno. C’è sempre qualcuno che sa cosa dire. Le mie mani seguono il ritmo nella mia testa, lento e cadenzato. Scivolano e fluttuano lentamente, come onde di un mare tranquillo. La pioggia batte creando rivoli sul vetro della finestra. Tutto intorno a me è avvolto da un morbido silenzio, il temporale ed i suoni della città giungono come ovattati alle mie spalle. Le gambe dei tavolini deserti affondano nella moquette bruciacchiata e i bicchieri scintillano nella semioscurità alla luce dei fari delle auto filtrata dalla finestra.
Mantengo la linea di basso con la sinistra. Allungo la destra per versarmi dello scotch. Lagavulin. Affumicato. Invecchiato di sedici anni. Roba costosa, acquistata per l’occasione. Sempre sentito a mio agio con uno scotch costoso in corpo. Un sorso per bruciare le ambizioni. Un altro per la tristezza. Il resto per puro piacere. Questione di priorità. Ma c’erano delle onde. E dei sandali nella sabbia. Lunghi capelli su una schiena nuda. Troppi. Non ci si può mai fidare, di troppi capelli. Le onde continuano a scorrere. Un sorriso. Un ghigno, più che altro. Altro Lagavulin. Il fumo della sigaretta continua a danzare per me. Qualcosa lo smuove. I pensieri, probabilmente. I pensieri sono una porta che si schiude e lascia entrare il freddo. E nel freddo si muovono le ombre, sinuose, che danzano e sfuggono negli angoli degli occhi, scure e inafferrabili. Una carta rotola sulla moquette, sospinta da un vento impercettibile, fino a sbattere contro un piede del pianoforte. Abbasso lo sguardo per osservarla. Raffigura un uomo baffuto a cavallo che porta in mano un piccolo sole. Occhi che mi fissano, alla luce di una candela. La sposto con il piede, la lascio rotolare via. Il bagliore smosso dallo smuoversi dei pensieri riflette parole sperate e non dette.
Sono colata tra le crepe del soffitto come la pioggia d’aprile. Ti ho punterellato le guance. Un bacio. Saliva. Una lacrima. Il mio collo. Il tuo cuore che batte. I tuoi occhi da cane bastonato.
E’ ora di rivestirmi. Ora di andare. Mi trattieni. Mi tiri a te di nuovo. No. Non stavolta. Sono un fantasma.Vorrei ciò che mi spetta. Troppo vento, la tempesta che arriva. La pioggia scroscia. Un’auto in corsa bagna con violenza la finestra. Il ritmo nella mia testa accelera ancora e le mie mani lo seguono. Sorrido. Una collina. Il vento mi sferza la faccia, la pioggia mi punterella, una sensazione già provata. Mi viene da ridere, mi mordo le labbra, cercando di non perdere il ritmo. Non posso permettermelo. Il pezzo deve continuare. C’è ancora Lagavulin. C’è ancora tempesta. La stessa che vidi la prima volta che la guardai negli occhi. Rifugiati nella penombra dei tavolini gli spettri del mio passato osservano con un ghigno. Accompagnano annuendo il mio vagare sugli 88 tasti. Questo non è un jazz, è un esorcismo. Le note ci cullano. Cullano noi, ombre delle nostre emozioni. Non bisogna temerli, i fantasmi. Bisogna imparare a nasconderli per bene sotto il letto. Accarezzarli in segreto quando nessuno più guarda. Pensieri che strangolano il cuore, allo stesso modo di un bicchiere vuoto. Sono bravo a tenere la linea di basso con la sinistra. Di necessità virtù, dicono. C’è sempre qualcuno con un modo di dire appropriato. La bottiglia è sempre più leggera, così come i miei polsi. Forse un tiro dalla sigaretta, prima che si spenga, potrei anche farlo. Occhi che mi fissano, nel riverbero delle candele. Voci, di quelle che ti svegliano all’improvviso la notte. Un ronzio. Le figure, all’interno di un quadro sulla parete, sembrano muoversi. Uomini che corrono su un fondo verde. Scosto lo sguardo altrove, cerco degli occhi. Altra cenere cade, spinta via dal vento dei pensieri come pulviscolo lunare.
E’ ora di andare. C’è polvere su quel quadro. C’è polvere su noi due. Questa casa cade a pezzi, come cado a pezzi io. Attraverserò quelle pareti e scomparirò, questa volta. Siamo solo spettri. Ombre di ciò che eravamo. Come gli amanti di Hiroshima. Impressi per sempre sui muri bianchi dalle fiamme. Ma tutto ciò che c’era di reale ormai è disintegrato. Polvere. Come quella su noi due. Addio.
Lo spettro dai lunghi capelli si solleva dal tavolino. I suoi denti da piranha brillano nella luce lunare. I suoi occhi di tempesta gelano le mie mani. Il mio esorcismo si interrompe, mentre lentamente lei si avvicina a me. Mi accarezza il collo prima di uscire nella pioggia. La porta si chiude con un sospiro. Provo a tenere la linea di basso con la sinistra. Le mie falangi colpiscono una superficie piana. I tasti sono scomparsi. Mi allungo verso il Lagavulin. Al tatto noto che la bottiglia ha cambiato forma. Il sapore stesso sulle mie labbra è diventato dolciastro. Un gin scadente, una bottiglia quasi vuota. Alzo gli occhi e noto il soffitto al neon di ospedale di questo squallido bar di periferia, le carte lanciate e le urla dei vecchi avventori sbronzi che giocano a tressette. La partita che scorre distrattamente, incastonata in uno schermo sulla parete. Un enorme specchio della Peroni, di quelli da boom economico. All’interno dello specchio ci sono io. Al solito posto. Malato del solito male.
Un ghigno. Un’ ombra che sfugge nell’oscurità. Occhi di tempesta che brillano per un impercettibile istante nella luce lunare. La stagione delle streghe finì in una manciata di giorni convulsi. Tutto scompare, quando scompare l’illusione. La più grande illusione di tutte. Come un buco nero risucchia ogni speranza, ogni sogno, qualsiasi bellezza. Tutto ciò che resta è un fondo di bottiglia ed il mio sorriso, quello delle occasioni mancate, il più bello, il più enigmatico il più dolce, il più amaro.
E intanto conto i denti però il conto non mi torna,
ce n’è uno che mi manca e forse tu mi puoi aiutare.
Per caso, non l’hai mica ritrovato a casa tua? Ero così distratto,
amore mio, quando ti ho morso il cuore.–Francesco De Gregori, Souvenir